dai 4 anni e adulti
uno spettacolo di Fabrizio Pallara e Dario Garofalo
regia, scene e luci Fabrizio Pallara
con Dario Garofalo
consulenza all’utilizzo dei materiali di recupero associazione culturale “La luna al guinzaglio”, Potenza
con il sostegno di associazione culturale “Duncan 3.0”, Roma
Kilowatt Festival, Comune di Pieve S. Stefano (AR)
Mazzilli S.r.l, DADAS srl
Spettacolo vincitore del premio
FIT/ Festival Internazionale del Teatro
L’Altro Festival sez. Teatro Ragazzi (Lugano)
Finalista Premio EXTRA
segnali della nuova scena italiana
La scena è una discarica: un vecchio cestello della lavatrice, un treppiedi per ventilatore, un paio di vecchie ciabatte, un ombrellone, un lenzuolo, delle calze bucate.
Uno è in cerca di cibo ma non trova niente da mangiare, attorno a sé solo brutti oggetti non commestibili, apparentemente inutilizzabili, nulla che lo soddisfi. Uno non riesce a vedere…
Lentamente la natura meravigliosa di quegli oggetti si svela davanti ai suoi occhi e così comincia un gioco, un canto di gioia, un canto della bellezza che viene dalla bruttezza, un inno alla capacità di sognare. Appare un bruco, una pericolosissima tarantola, due giraffe-zebre, un pianoforte multicolore, un bagno caldo, un re, una donna bellissima.
Uno, senza aver bisogno di parole, scortica la realtà e ne fa sogno, musica e danza, ne fa delicato vento che solleva e dondola gli occhi di chi guarda.
Un viaggio di crescita, una ricerca di equilibrio tra i sogni e la realtà, i desideri e le necessità.
Lo spettacolo, rivolto ad un pubblico di tutte le età, vuole risvegliare la capacità di vedere il mondo con occhi diversi, trasformare “ciò che è” in “ciò che potrebbe essere” e scoprire la meraviglia insita nelle cose. In quest’ottica restituisce uno stimolo verso la conoscenza e l’esplorazione degli oggetti valorizzandone un riuso creativo nel rispetto dell’ambiente.
LA DIFFERENZA settimanale di cultura Anno 2 Numero 10 - 16.03.2009
L’inciampo nella realtà
Dialoga a distanza con Capossela e Chaplin l’ultimo spettacolo del Teatro delle Apparizioni
di Graziano Graziani
Nel Teatro delle Apparizioni un ruolo centrale lo ha sempre rivestito la ricerca dello stupore. Non stiamo parlando del sensazionalismo, della ricerca dell’effetto, ma di quella sensazione epidermica che solletica il corpo quando ci si imbatte in qualcosa di bello ma totalmente inaspettato. Ecco, lo stupore che è centrale nella ricerca del Teatro delle Apparizioni ha a che vedere con la meraviglia. E la meraviglia è un’emozione immediatamente corporea, e quindi intimamente connessa al percorso che questa formazione romana ha intrapreso nel corso degli anni con il teatro sensoriale, segno distintivo dell’esordio e dei primi spettacoli del Teatro delle Apparizioni.
In anni più recenti lo sguardo della compagnia si è spostato verso il teatro ragazzi. Un’evoluzione in qualche modo naturale, che ha permesso di proseguire il percorso intrapreso attorno a questa esplorazione della meraviglia senza reiterare all’infinito le formule legate all’esplorazione sensoriale, contemporaneamente recuperando la frontalità della visione. D’altronde il lavoro del Teatro delle Apparizioni non ha nulla a che vedere con l’intrattenimento per bambini con cui spesso, purtroppo, coincide la formula del teatro ragazzi. Piuttosto, il loro teatro è la materializzazione di una zona di confine, dove il linguaggio della scena sposa le tematiche dell’infanzia, ma lo fa inventando codici e creando suggestioni esattamente come nel teatro “adulto”. E anzi, attingendo a un terreno immaginifico così fecondo e allo stesso tempo così diffuso (poiché il passaggio dell’infanzia è una dimensione comune a tutti), in qualche modo si allinea all’idea di teatro popolare d’arte proposta qualche tempo fa da Massimiliano Civica.
Uno, l’ultima produzione del Tda appena andata in scena al Duncan 3.0 di Roma, è forse l’esempio migliore di questa fusione di piani. Non a caso si tratta di un lavoro che, oltre ad aver vinto il primo premio nel Festival internazionale di teatro ragazzi di Lugano, è risultato finalista al Premio Extra, dedicato alla nuova scena di ricerca italiana. Una capacità di commistione di registri e che si realizza grazie a una facoltà che il cantautore Vinicio Capossela, nelle sue canzoni, ha definito “l’incanto”. Qualcosa che non ha nulla a che vedere con la retorica dell’innocenza, ma piuttosto con la capacità di guardare il mondo con occhi diversi (una facoltà che, ha dichiarato Capossela in un’intervista, «se la sai conservare, poi te la ritrovi»).
Uno (Dario Garofalo) è il personaggio senza nome e (quasi) senza parole che entra sulla scena con il fare un po’ sgonfio e pierrottesco degli attori da film muto. È povero, trasandato, palesemente non ha un soldo in tasca e per di più ha fame e non ha nulla da mangiare. Si aggira per un vasto campo di rifiuti col dondolio luminoso dei derelitti e degli esclusi chapliniani. Comincia a rovistare in mezzo al pattume, nella speranza di trovare qualcosa da mangiare, ma tra i rifiuti trova solo cartacce e rottami. Eppure lì, nella disperazione della solitudine e della fame scatta qualcosa. Uno si illumina, e con lui si illuminano gli oggetti lì attorno. Se non è possibile mangiare si può sempre… fare finta. Così comincia a ingozzarsi di fogli di giornale, accartocciati e infilati sotto la maglia, finché non formano una grande pancia. L’immaginazione è meglio di niente, almeno dà modo di sconfiggere lo scoramento e, soprattutto, di guardare il mondo sotto una luce nuova.
È così che Uno, masticando uno strano gramelot, si lancia in un’esplorazione della realtà attorno a lui che ha completamente cambiato di segno. Gioca con serpenti fatti di tubi di scarico, si fa la doccia in una vasca ricavata da un televisore scassato, fa parlare strani esseri fatti di calzini e scopre tracce di nobili cavalieri del deserto tra tende fatte di giornali, ornati di corone a foggia di cestello di lavatrice.
Di colpo il mondo-pattume partorisce nuove possibilità grazie all’immaginario di questo personaggio stralunato che, grazie l’attenta regia di Fabrizio Pallara, passa da un’immagine all’altra come in una partitura musicale. Una sequenza che muove con naturalezza da un piano di realtà scarna e miserevole a uno di luminosa immaginazione, complici le musiche e il disegno luci, che senza simbolismi tracciano chiaramente la temperatura delle emozioni di Uno.
Non c’è solo gioco nella reinterpretazione degli oggetti, che pure suggerisce al mondo-adulto, dissennato produttore di tutto quello “scarto” che soffoca il pianeta, la possibilità di guardare oltre, riciclando, reinventando, ovvero cambiando prospettiva. Non si tratta solo sorprendersi a sorridere di fronte al concerto per calzini che Uno improvvisa da un sacco di abiti buttati (c’è forse un legame con «Il paradiso dei calzini» di Capossela?). C’è anche la dimensione fortemente politica della volontà di cambiare le cose pur davanti a un campo di macerie, di rovesciare un punto di vista lucido, che ci mostra un mondo in frantumi, grazie a quella lucidità ancora più fine in grado di vedere che «c’è splendore in ogni cosa» (come recitano i versi di una grande poetessa prestata al teatro, Mariangela Gualtieri). Ovvero la capacità di illuminare la realtà con la lente dell’immaginazione, intravedendone così le potenzialità più nascoste, che è una delle qualità più preziose dell’animale uomo.
Eppure – e qui sta il lato più acuto dello spettacolo – non c’è celebrazione, ma solo spinta a mettersi in gioco. Non a caso ciò che muove Uno è una spinta terrena, naturale e terribile come l’istinto della fame. E quando danzando con un’immaginaria compagna, ombrellone con il cappello, Uno si imbatte in una mela reale, rossa e succosa, lui la mangia avidamente, senza più curarsi della sua “stanza dei giochi” e anzi irrompendo – con un lievissimo ma sorprendente coup de théatre – nella realtà degli spettatori. Perché non c’è autismo né compiacimento nella danza chapliniana di Uno; piuttosto la dichiarazione di una scelta.
NB: Per chi volesse approfondire il percorso del Teatro delle Apparizioni, è in libreria un bel volume curato da Letizia Bernazza e uscito per Editoria&Spettacolo. Si tratta di un libro prezioso non soltanto perché ricostruisce dieci anni di attività di questa formazione romana, giovane, ma che già annovera radici profonde. Ma anche perché è elaborato come una visione multiprospettica del lavoro del TdA, che passa per l’analisi dell’autrice fino ai racconti in prima persona di chi ha fatto il Teatro delle Apparizioni, o ne ha accompagnato il percorso: dal regista Fabrizio Pallara agli attori Giuliano Polgar, Margherita Lacché, dal drammaturgo Simone Giorgi a chi si occupa delle scene, dei costumi, dell’organizzazione come Sara Ferrazzoli, Stefania Frasca, Laura Rhi-Sausi, passando per le collaborazioni fisse, come col regista cinematografico Marco Magiarotti e il musicista Valerio Vigliar, e per quelle spuntate lungo il cammino, con il Teatro dei Sassi di Matera e la regista messicana Shaday Larios Ruiz.
Una visione polimorfa e reccia, alla quale si aggiunge l’osservazione esterna degli interventi critici, che hanno accompagnato il percorso delle Apparizioni, dai docenti che hanno visto nascere la compagnia come Giorgio Taffon e Giancarlo Sammartano, allo sguardo dei critici teatrali che si sono imbattuto nel lavoro di questa banda di “folletti” (come scrive Gianfranco Capitta) e sono stati rapiti dalla loro naïveté, dal loro essere una sorprendente anomalia (come spiega Paolo Ruffini, curatore della collana) nel panorama della scena contemporanea italiana.