I nuovi autori

I nuovi autori, Rodolfo Di Giammarco, La Repubblica gennaio 2009

Il teatro di ricerca la adotta sempre di più. Le compagnie ne incentivano le regole d’ ingaggio. L’ editoria – vedi il caso di “Senza corpo” della minimum fax, con otto testi, a cura di Debora Pietrobono – ci scommette in modo nuovo. Certe realtà produttive e i premi le (ri)danno visibilità. Una serie di fiducie e di autonomie segnano un balzo di quotazioni della scrittura per la scena, e si fa largo, nell’ area romana – dopo i pionierismi e le tendenze di Fausto Paravidino, Eleonora Danco, Stefano Ricci e Gianni Forte, Sergio Pierattini, Daria Deflorian e altri – un quadro molto differenziato di autori che agiscono per gruppi, per teatri, per registi, per riscritture, per se stessi, e per creare nuovi indotti di fenomeni, di linguaggi, di spettatori. Un manifesto pubblico è stato sperimentato dal Teatro di Roma col progetto “Oggi verso domani” che ha sostenuto due autrici (pubblicate dalla Voland): Lucia Calamaro, 36 anni, col suo Autobiografia della vergogna, dopo essere già emersa con Tumore («Seguo una spinta intima, personale, esagerando il pensiero o il “fuori” del soggetto, la linea media non m’ interessa, e non saprei parlare di cose che non ho vissuto»), e Marta Poggi, 33 anni, col suo Storie di Ermengarda («L’ ho scritto dieci anni fa, dedicandomi poi alla graphic novel, e a teatro reinvento i fatti e la storia, per comprendere meglio falsificando»). A suggerire gli sbocchi una scrittura originariamente solo teatrale è Letizia Russo, 28 anni: «Oggi è importante cercare un sodalizio, fornire un ritratto veritiero del Paese in cui viviamo, e superare la domanda-offerta cercando nuove strategie. Ho stretto un rapporto con Antonio Latella, collaborando in Germania alla riscrittura della Trilogia della villeggiatura di Goldoni, e per lui e lo Stabile Umbro tradurrò Le nuvole di Aristofane. Nel frattempo per Cristina Pezzoli m’ occupo d’ un adattamento de Il sopravvissuto di Scurati, e ho un progetto pluriennale sul tema “La falsa coscienza”. Sono co-autrice per Sky Classica d’ un documentario sulla Traviata di Verdi con Fausto Russo Alesi». Importanti sono i contributi testuali nel campo della ricerca. C’ è Riccardo Fazi, 29 anni, che per Muta Imago ha reinventato le parole di Lev: «Partiamo da un fuoco centrale di elementi visivi, e qui ho trascritto il diario della memoria a pezzi d’ un uomo, così come nel prossimo Madeleine ci sarà la partitura di una lei che ha deciso di dimenticare». C’ è Roberta Zanardo che è co-autrice con gli altri cinque dei Santasangre, media sotto i 30 anni: «Abbiamo tra l’ altro attinto, in 84.06, al neo-linguismo di Huxley, per una sintassi che facesse da contrappunto impoverito al futuro». C’è Fabrizio Pallara, 29 anni, del Teatro delle Apparizioni: «La nostra è una drammaturgia di relazione tra pubblico, attori e linguaggi». E ci sono Daniele Timpano, 34 anni, con l’ ultimo Ecce Robot («Il testo nasce parallelamente al progetto, e il linguaggio è centrifugo, divagante»), Mirko Feliziani, 35 anni, col recente Assunta Pertuso («Creo per me e per attori che conosco, parto da un frammento, sulla linea di Ruccello»), Giampiero Rappa, 35 anni, reduce da Prenditi cura di me («Scrivo commedie e drammi pragmatici per una compagnia, Gloriababbi Teatro, ora prodotta da Barberio Corsetti»). L’ elenco s’ allungherebbe con Vittorio Continelli, Marco Andreoli, Alessandro Fea, e c’ è chi ha iniziato a scrivere quasi come Jon Fosse.

Simone Giorgi, L’Unità, novembre 2003

Si può vedere senza la vista? Può sembrare una domanda retorica. Se applicata al teatro etimologicamente,“luogo da dove guardare”, apre prospettive inaspettate.
«Cosa si intende per vedere? Vedere significa avere coscienza del reale, formarsi un’idea di ciò che ci circonda. Ci sono molti modi per farlo, non solo attraverso la vista. Nei nostri spettacoli gli spettatori vengono bendati; devono così utilizzare gli altri canali percettivi. Nella società in cui viviamo, la possibilità di utilizzare mezzi di comunicazione diversi da quello visivo è pressoché preclusa. E questo perché la nostra società ci impone di essere rapidi, e la vista, tra tutti, è il senso che permette una più veloce identificazione. Il teatro mi permette di prendere tutto il tempo di cui ho bisogno: permette a me e ai miei attori di sperimentare l’attenzione. E di farla sperimentare agli spettatori, durante lo spettacolo». Chi risponde a questa, e alle successive domande, è Fabrizio Pallara, regista del Teatro delle Apparizioni, compagnia che da quattro anni compie un percorso di ricerca nell’ambito di quello che lo stesso Pallara definisce “teatro sensoriale”.
Ma cosa significa: teatro sensoriale?
«Potremmo definire il teatro sensoriale come una forma di teatro che non implica esclusivamente la sollecitazione della vista e dell’udito, ma anche del gusto, dell’olfatto e del tatto, e che intende, oltre che catturare l’attenzione dello spettatore, anche gestire la sua partecipazione all’azione».
Lo spettatore, quindi, compie delle azioni?
«Lo spettatore, una volta bendato, viene indotto a scoprire lo spazio che lo circonda e il suo corpo attraverso il movimento. Perciò, attraverso le azioni scopre uno spazio esteriore e uno interiore, che nello spettacolo si fondono. Gli spettatori hanno la sensazione di trovarsi nell’acqua, poiché all’inizio ogni movimento è lento e pesante, e cosciente, per così dire. Poi, a poco a poco, è come se imparassero una nuova grammatica del movimento, che li porta a muoversi con un’eleganza insolita e con un profondo senso di libertà».
Qual è la reazione degli spettatori alla privazione della vista?
«C’è chi si inibisce, e chi invece si libera. Comune, è però la sensazione di non essere visti. Perciò gli spettatori cercano una via di comunicazione non visiva. Senza la vista si scopre un nuovo modo di vedere. Si riattivano e affinano gli altri canali percettivi del nostro corpo. Si “sente” l’azione. Ci sono molti modi per percepire la realtà, il che equivale a dire che ci sono molti modi di vedere. Costruire uno spettacolo, per me, è soprattutto costruire un modo di vedere. Senza la vista, una sedia può divenire un ostacolo insormontabile; e un metro quadrato, un mondo da esplorare».
Da un punto di vista teatrale, la privazione della vista, rendendo più recettivo lo spettatore, non agevola il compito degli attori?
«È evidente che ponendo lo spettatore in una situazione di disagio, ogni emozione risulta amplificata. Ma questo aumento della percezione, da un lato agevola il nostro compito, dall’altro lo rende particolarmente difficile. Il minimo errore determina la morte. Perché se lo spettatore si sente tradito, o se riacquista coscienza ,lo spettacolo, per lui, è praticamente finito. È come lavorare sul ghiaccio: si possono compiere acrobazie e movimenti impossibili su un’altra superficie, ma ad ogni istante si rischia di cadere».
A cosa stai lavorando in questo momento?
«Il Teatro delle Apparizioni sta preparando il suo primo spettacolo per platea. È una fiaba per bambini e adulti: si chiama Il Paese dei Sussurri. È uno spettacolo finalista del Premio Scenario 2003, che debutterà dal 5 all’11 gennaio presso il Teatro Furio Camillo, in Roma».
Perché uno spettacolo per platea?
«Come teatrante, il disagio rappresenta una possibilità. E lavorare per una platea, per me, rappresenta un motivo di disagio. Nel corso di questi anni di lavoro sul teatro sensoriale, infatti, la normale convenzione palco-scena mi è divenuta estranea. Nei miei spettacoli, come ho gia detto, parto dal punto di vista che voglio costruire allo spettatore, e quindi dal tipo di relazione che desidero instaurare tra quest’ultimo e l’attore. In un teatro, invece, il punto di vista è predeterminato, e generico: non c’è un rapporto spettatore-attore, bensì pubblico-attore. Credo che, per me come per ogni teatrante, prima di qualsiasi estetica o ideologia, sia necessario elaborare un’efficace strategia del disagio».

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