Kafka e la bambola viaggiatrice racconta dello scrittore praghese che, negli ultimi mesi della sua vita, incontrò una bambina cui dedicare l’ultima, preziosa, opera. Regia di Fabrizio Pallara, teatrodelleapparizioni al Mattatoio per Romaeuropa Festival. Recensione.

Foto Daniele Fona

Uno scrittore – cappello cappotto e, forse, bastone – passeggia allo Steglitzer Park di Berlino; l’età gli concede il lusso del tempo, ora che non sa più tanto che farsene; è una giornata docile, l’ora affabile in cui può capitare di imbattersi in una variegata umanità che, come lui, attorno a lui, passeggia nel parco. Una panchina staziona in un parco come un invito; se è occupata si hanno due possibilità: si procede verso la prossima, si condivide lo spazio e, chissà, qualche parola. Ma se su quella panchina, si badi bene, c’è una ragazzina in lacrime? Spiazzato, l’uomo, dunque lo scrittore, si misura con quel pianto come può, una voce gli dice di assecondare il passo ché non è affar suo, ma una voce ancora più profonda lo richiama all’ordine che, per diventare uomini davvero, bisogna di certo essere stati bambini.

Foto Daniele Fona

E allora si avvicina e chiede quale sia il problema, perché queste lacrime; la bambina ha perso la propria bambola, racconta, definisce la situazione e l’emozione dolorosa che n’è seguita; che fare? L’istinto di uno scrittore è un vento insidioso che la ragione non sente neppure arrivare; questi capisce che l’invenzione è una scatola piccola che contiene grandi soluzioni, così le dice che no, la bambola è solo partita e stava bene. Le ha scritto una lettera. La bambina vuole leggerla e lo scrittore torna a casa per scriverla come in uno stato febbrile. Il giorno dopo torna a trovare la bambina, perché la legga. Ma non basta. E allora ne scrive ancora, un viaggio diventano due, poi ancora e da Londra, Parigi, Lisbona, la bambola narra dei viaggi – mai? – compiuti.

È su questo tappeto di foglie d’autunno, un parco nel centro di Berlino, che Franz Kafka conosce la bambina cui dedicherà la sua opera più segreta, rimossa, questa sì, davvero perduta; è sullo stesso tappeto, dentro una sala del Mattatoio di Roma, che Fabrizio Pallara con Il teatrodelleapparizioni ha fatto rivivere per Romaeuropa Festival 2019 la storia di Kafka e la bambola viaggiatrice, tratta dal romanzo Kafka y la muñeca viajera di Jordi Sierra i Fabra, con una caratura poetica capace di conquistare lo sguardo irretito di piccoli e adulti in un unico spettro di rappresentazione.

La scena si compone di due ambienti che rimbalzano l’uno nell’altro: il giardino del dialogo con la lettrice, più fragile di un’intera opera, lo studio della solitudine della scrittura, condivisa nell’unica relazione possibile, quella con l’ultima compagna, Dora Diamant, la sola a conoscere e tramandare questa storia. Non è dunque altra, la vita di uno scrittore: tutta qui tra l’osservazione e l’invenzione, la scrittura e la lettura che ne segue, la paura e il desiderio che le storie possano davvero coesistere con la realtà. Fabrizio Pallara costruisce un impianto visivo eccellente, un’immagine devota che cosparge di un manto l’incontro più delicato, durante gli ultimi mesi della vita di Kafka.

Su quella panchina, lo scrittore – in cui vive un sempre più straordinario Valerio Malorni, attore che sorprende per la qualità raffinata capace però di non tralasciare una forza intima detonante – si confronta con una bambina che, agli occhi corrotti di un pubblico adulto, è fin da subito una bambola, le cui azioni sono merito del tocco delicato di Desy Gialuz (che veste anche i panni di Dora). Ecco dunque la destituzione del reale, per Kafka, ma con il reale presente, per noi: non c’è una bambina a parlare con Kafka, c’è una bambola che cerca una bambola perduta. È qui che l’asse dei personaggi, attraverso l’incontro, si sposta e conquista territori inesplorati di compresenza; da qui in poi tutto, tutto sarà possibile, come dirà la stessa Dora in fondo allo spettacolo: «Franz era riuscito a trasformare il mondo in un fazzoletto».

Foto Daniele Fona

È un dialogo prezioso, inarrivabile, quello tra l’arte e l’infanzia; l’animo infantile accetta il gioco senza sovrastrutture, gli adulti devono affrontare un percorso di azzeramento per riqualificare il proprio giudizio sulla dimensione umana, in cui è mescolato il reale e l’irreale. Kafka aveva cioè capito che la menzogna, in un contesto protetto, deve diventare verità per un fine etico. È poi così strano sentire pronunciare dalle labbra di Josif Brodskij che “l’estetica è madre dell’etica”? La verità della finzione avrebbe sostituito la verità. Ed eccolo, neanche troppo nascosto, il teatro. Kafka continuò per tre settimane, scrivendo una sorta di romanzo epistolare tra la bambola e la bambina. La sua febbre tornò per concludere, sapeva dovesse finire e che la fine dovesse essere il ritorno di un ordine preciso, non lasciare residui confusi perché la confusione non conclude. Buio. Alla fine. Sipario. La bambola si sarebbe sposata, non sarebbe tornata ma sarebbe stata felice altrove. Tanti abbracci, fai buona vita piccola. Diventa grande, ama, ma se puoi, se un giorno un burattino si scoprisse davvero una donna, allora non smettere di pensarci, che una volta un vecchio ti parlava della tua bambola, partita per un viaggio; e lo chiamava vita.

Simone Nebbia, TeatroeCritica, 11 gennaio 2020